Una Storia come tante…

UNA STORIA FORSE COME TANTE
Paolo Rosa e Giuseppe Cortesi
La sera del 29 novembre 1943 vennero uccisi a Lovere, in due separati ma quasi contemporanei episodi, il Notaio Paolo Rosa ed il Perito Industriale Giuseppe Cortesi. Il primo era il Podestà di Lovere, cioè il sindaco, ed il secondo il Segretario politico del ricostituito fascio repubblicano. I due, se pur di diverse origini, avevano in comune la dedizione alle loro funzioni che altro non era, per loro, che l’amor di patria riversato sul territorio in cui operavano. Teniamo presente che, allora, gli incarichi politici erano completamente gratuiti ed i due, quindi, sottraevano alle rispettive famiglie parte del tempo che avrebbero dovuto loro dedicare. Erano entrambi civili disarmati e, pertanto, bersagli estremamente facili da colpire. Il cinico piano comunista era stato preventivamente elaborato a tavolino da un direttivo ristretto, che trasmetteva gli ordini al braccio militare. Si vollero eliminare dei rappresentanti politici stimati che, appunto perché tali, legittimavano con la loro adesione al fascismo repubblicano, la neonata repubblica sorta dopo la dichiarazione di un torbido armistizio, lo sbando generale e l’occupazione tedesca dei mesi appena trascorsi. Ma forse è meglio raccontare con ordine dei due personaggi.

Il Notaio Paolo Rosa, di antica famiglia loverese, padre di tre figli, aveva partecipato alla prima guerra mondiale dove si era guadagnato due medaglie ed era poi stato fatto prigioniero e, dopo quella guerra, era stato nominato Podestà di Lovere. Durante il suo incarico, quando si volevano trasferire le reliquie delle nostre sante patrone e conterranee (allora per la chiesa solo Beate) aveva fatto suonare a raccolta le campane del paese per raccogliere il popolo. Tutta la gente allora accorse , il popolo si compattò per evitare la sottrazione di una memoria comune che restò, per il momento, a Lovere. Fondò la Sezione di Lovere del Club Alpino Italiano e ne diresse le prime gite, aperte a tutti. Aveva studio notarile sia a Lovere che a Clusone. Data la competenza professionale gli era stato offerto di trasferirsi a Roma, ma lui aveva rifiutato per poter stare nel paese che amava. Questa sua personalità, oltre alla sua costante attenzione ai bisogni del territorio, gli attribuì una forte popolarità, difficile da demolire. Per evitare possibili eccessi , stanti le leggi razziali che prevedevano il monitoraggio dei residenti di religione ebraica ed essendo presente a lovere un nucleo familiare di tale religione rifugiato da altrove, a richiesta rivoltagli dall’impiegata di anagrafe su cosa dovesse scrivere su quella famiglia nella documentazione in cui si chiedeva la razza rispose:”scriva razza nostrana!” Dopo le turbolenze successive al 25 Luglio, il capo di quelli che poi l’avrebbero ucciso aveva cercato di fargli togliere il distintivo del partito, cosa che lui aveva ovviamente rifiutato. E quando dopo pochi giorni venne costituito un comitato cittadino di pacificazione, con inclusi i comunisti, ne fu messo a capo anche con l’approvazione dell’antagonista prima citato. Anche in tale veste si distinse per una pragmatica e costante opera di pacificazione . Aveva una casa sull’altipiano di Bossico dove trascorreva parte del suo tempo libero e lì, nell’estate del 43, auspice il famoso pittore Oprandi, convocò un piccolo nucleo di cosiddetti antifascisti, per tentare un “modus vivendi” che potesse evitare al paese lotte intestine. Alcuni di essi si presentarono ostentano, a spalla, fucili da caccia, ma lui non si fece intimorire(1), tentò come sempre la riappacificazione e, alle loro larvate intimidazioni, rispose con cortese fermezza, riuscendo a calmare gli animi dei più accesi. Non era nuovo a momenti difficili, anche se di difficoltà diversa; già al tempo dell’ascesa al potere del fascismo aveva ricevuto una coltellata da un avversario, poi imprigionato, e si era battuto per farlo liberare, riuscendovi. Voleva mantenere il suo stile, ricordato nella lapide posta sul luogo dell’uccisione, cioè l’essere determinato ma non vendicativo, fedele al suo credo senza essere fanatico(2)
E così lo aspettarono la sera del 29 Novembre 1943, alle 18 circa. Col primo buio collocarono sassi sulla strada su cui doveva transitare con l’autista nel ritorno dallo studio di Clusone e fermarono la macchina; dicono gli fecero sparare da un ragazzo disperato e incosciente, apolitico, che era scappato da casa perché aveva sfasciato l’automobile della ditta di trasporti di cui il padre era socio, che si era rifugiato dai partigiani detti allora ribelli. E tanta era l’ipocrita vergogna per quell’omicidio a loro fortemente necessario, che fecero circolare la storiella che loro avevano sì fermato il Rosa, ma che un colpo accidentale era partito da un moschetto uccidendo proprio per puro caso il notaio. Volevano così bypassare lo sdegno collettivo, ben sapendo con cinico calcolo che la situazione sarebbe poi stata gestita non più dai politici, ma “manu militari” e che, nella coscienza collettiva sdegnata, avrebbero a breve fatto da ampio contraltare altri spargimenti di sangue che, forse, li avrebbe messi militarmente in crisi data anche la loro incompetenza, ma che avrebbe portato loro consenso e , soprattutto, avrebbe fatto dimenticare il crimine commesso.

Giuseppe Cortesi era invece bergamasco della città. Aveva studiato alla “Casa dello studente”, collegio fondato da Angelo Roncalli, futuro Papa, con cui aveva particolari legami dato che Roncalli conosceva anche la sua famiglia. A studi ultimati e intraprese differenti strade i due si mantennero in contatto. Quando si sposò Mons.Roncalli gli scrisse una bellissima lettera(3); dal matrimonio nacquero sei figli. Essendo diplomato perito industriale si era trasferito a Lovere, avendo trovato lavoro presso l’allora stabilimento ILVA. Fascista convinto assunse l’importante incarico di Segretario Politico, che assolse con passione cercando di risolvere i bisogni della popolazione. Versò i propri contributi per concorrere alla costruzione del Lido di Lovere, paese rivierasco di lago, dove tutti i ragazzi avrebbero potuto praticare gli sport d’acqua. Un giorno, avendo ricevuto quale compenso non richiesto per il disbrigo di una pratica un pollo, lo sottrasse alla pur numerosa famiglia e lo versò all’ospedale; di fronte alla forte reprimenda della moglie, con più di sei bocche da sfamare, rispose che lui, con l’incarico che aveva, doveva essere esempio. Sfamava la famiglia esclusivamente con le razioni della tessera annonaria di guerra, e questo fu sempre il suo stile. Stile peraltro sottolineato da Mons.Roncalli quando, da Istambul dove era Nunzio Apostolico, avuta notizia della sua morte scrisse una accorata lettera alla madre(4).
Lo stesso giorno in cui fu ucciso, Cortesi aveva scritto una lettera al Prefetto per mitigare alcuni controsensi delle razioni alimentari di guerra che prevedevano una differenza tra quanto spettasse ad un operaio e quanto ad un impiegato, per parificarle. E come il Rosa godeva di pari popolarità,
stima ed ammirazione; ed entrambi personaggi erano riferimento ed esempio per la popolazione e, quindi, ostacolo per il partito comunista clandestino che doveva trarre vantaggi dal momento di sbando generale. Bisognava uccidere, cinicamente ed ipocritamente, per poter creare uno scollamento tra la popolazione ed il partito che ne tutelava gli interessi. Per l’altro partito, quello che tramava nell’ombra, erano ben più importanti altri interessi, anche se non coincidevano con gli interessi reali della gente. Così, quel 29 Novembre sera, la Banda di Lovere (così si chiamava questo primo raggruppamento ribella, poi chiamato partigiano e trasformatosi in 53° Brigata Garibaldi), si divise in due gruppi principali e passò all’azione contro degli inermi, in un paese in quel momento privo di presenza militare,
Ho già parlato del Notaio Rosa, contro cui operò la prima squadra; quasi contemporaneamente la seconda disarmò i pochi carabinieri presenti nella loro caserma, dicono fossero consenzienti, ed entrò nel vicino stabilimento ILVA. Avevano opportunamente scelto la data di pagamento degli stipendi, e quindi pensarono bene per prima cosa di rapinare le paghe, pratica di cosidetto autofinanziamento; poi andarono negli uffici a cercare il Cortesi. Comandava l’azione un ex ufficiale, reduce di Russia, che si era dato alla macchia nella zona sud del lago, ed ora si era unito alla Banda di Lovere. Cortesi era casualmente non alla sua scrivania ma presso una vicina. L’ex ufficiale, che non conosceva il Cortesi, chiese dove fosse e lui, prontamente, disse che quello che cercavano era fuori ufficio. Ci fu un parlottio di consulto e fu chiamato un ragazzo da fuori che lo indicò puntandogli contro il dito dicendo “ è quello lì”. Allora gli intimarono di seguirli e lui rifiutò: l’ex ufficiale gli scaricò subito addosso la pistola, e qualcuno gli sottrasse poi anche l’orologio, fecero prigioniero un impiegato notoriamente fascista e ripartirono per la montagna con soldi e prigioniero. E così, a breve, ci fu una reazione militare che portò, in vari episodi, alla cattura di 13 persone, tra cui l’ex ufficiale ed il probabile uccisore del Rosa, che furono processati dal tribunale militare, cui ormai spettava la competenza esclusiva di giudizio sulla repressione degli atti di banditismo, che potè solo condannarli a morte.
La maggioranza di quei 13 era costituita da ragazzi che, ingannati dallo stesso capo comunista che aveva cercato a suo tempo di togliere il distintivo al Rosa dopo il 25 Luglio, erano stati blanditi e raggirati. Tale personaggio assicurava loro una rapida fine del conflitto grazie agli alleati che stavano risalendo la penisola, e paventava la prossima chiamata alle armi di 3 classi come una deportazione in Germania ed un inutile rischio di farsi massacrare. Riuscì così ad ingannare ragazzi e famiglie, ingrossando però le proprie file. Cadde nel tranello anche il nipote di un fascista; ma dopo il duplice omicidio la madre, imbeccata dal fratello, se lo andò a riprendere dai partigiani salvandogli la pelle. Il ragazzo tornò a casa, rispose alla chiamata alle armi, andò in Germania, disertò appena possibile e si nascose, e terminò la guerra senza colpo ferire né essere ferito.
Diversi fascisti loveresi, tra cui lo zio dell’appena citato, si adoperarono fortemente per cercare di salvare la vita ai 13, di cui tra l’altro pochissimi erano comunisti e, comunque, certamente non tutti colpevoli almeno allo stesso modo; forse ci sarebbero parzialmente riusciti. Ma in quei giorni anche a Milano avevano assassinato il Federale, Aldo Resega, bergamasco, ed alcune funzioni funebri si replicarono a Bergamo. Degli sconosciuti, troppo utili a chi voleva la guerra civile, spararono sul funerale, ed il tribunale militare annullò tutte le domande di grazia presentate e le esecuzioni, spietate come gli omicidi, ebbero corso. Le famiglie dei 13 giustiziati, nella loro ovvia e cupa disperazione, lessero l’uccisione dei loro cari come una volontà fascista di vendetta, non capendo che era solo lo spiccio giudizio di un tribunale militare: giudizio peraltro ampiamente previsto da chi li aveva ingannati. Ed il dolore non fece loro intuire lo sporco, irresponsabile e strumentale imbroglio di cui erano state vittime. Ed era quanto voleva l’altro partito, quello clandestino, che ben si guardò da tentativi di salvataggio o da responsabili costituzioni. E si aprì allora quella voragine voluta appunto dai comunisti tra parte della popolazione e stato. Il cinismo freddo aveva colto l’attimo favorevole per portare a termine la sua operazione devastante: e non importava a quale prezzo, perché lo scopo era stato raggiunto. Ora, per molti, i fascisti erano gli assassini, ed i comunisti i difensori dei deboli! Ed ancora oggi la coscienza collettiva del paese è divisa sul giudizio di questi fatti. Rosa e Cortesi furono i primi caduti bergamaschi della guerra civile; furono i primi agnelli sacrificali di un massacro che terminò nel Giugno del 1945, quando due legionari feriti furono prelevati dal letto d’ospedale, trascinati sanguinanti in riva al lago, uccisi e gettati nelle acque in cui ancora giacciono. Stessi mandanti e quasi le stesse mani del Novembre 43, forse anche le stesse menti di Rovetta.
Ma i tempi passano, testimoni e protagonisti di quei tempi feroci quasi non ci sono più. Su quella storia ci si può spesso confrontare quasi, ma non sempre, serenamente. Viviamo però tempi di oblio, superficialità e malcostume generale per cui credo sia un dovere civile ricordare le figure degli assassinati che, avendo vissuto il loro impegno politico disinteressatamente, sono storia comune di cui possiamo andare fieri. La politica vissuta come servizio è valore perenne e,oggi quanto mai, un metodo che deve essere ripristinato.

Archeologia a Taranto

Trovate dagli archeologi mura ciclopiche in Puglia e uno scheletro. Qui morì il re di Sparta

Resti di mura ciclopiche e uno scheletro – che sarà accuratamente studiato per stabilire l’epoca in cui visse questo individuo – sono venuti alla luce in questi giorni a Manduria, una cittadina di circa 30mila abitanti della provincia di Taranto in Puglia, situata nel Salento settentrionale.

Proprio nelle scorse ore gli archeologi – che hanno gli scavi in corso – hanno aperto le porte del cantiere ai visitatori per mostrare i risultati della ricerca e per spiegare il significato di quanto è emerso. Lo annunciano il Patrimonio Subacqueo e Il Parco archeologico di Manduria.